Era il mese di marzo dell’anno 2005. Appena entrai nella sala della libreria posai lo sguardo su ogni singolo individuo di sesso maschile dell’ennesimo corso di scrittura creativa al quale partecipavo.
Delusa, sospirai mestamente, poi mi ricordai del reale motivo per cui mi trovavo lì, scrivere!
Passarono diverse lezioni prima di accorgermi che quell’ingegnere biondastro, dall’aspetto nordico e per di più impiegato di banca, non solo scriveva cose interessanti, ma era pure simpatico e aveva raffinatezza intellettuale pungente, sarcastica e divertente… Peccato che non era proprio il mio tipo.
Poi, durante un viaggio in treno per Napoli, mi accorsi che riusciva a sostenere senza batter ciglio la valanga di parole che gli versavo ininterrottamente da due ore. E gli piaceva pure starmi ad ascoltare! Peccato che proprio non era il mio tipo.
Un giorno andammo al cinema e ci sciroppammo uno di quei polpettoni intellettualoidi ai quali io e la mia solitudine eravamo abbonate da tempo. Non si addormentò!!! Poi, a fine serata, chiacchierai con Pippo, sì, proprio Pippo, l’amico di Topolino. E lui (ma questo l’ho scoperto solo dopo) rimase colpito dalla mia naturalezza nel parlare con un peluche, lo stesso peluche che con altrettanta naturalezza era solito sedersi accanto a lui sul sedile anteriore, protetto dalla cintura di sicurezza. Forse appartenevamo allo stesso universo emotivo… Peccato che non era proprio il mio tipo.
Una sera però decisi di buttarmi in una di quelle avventure (che in realtà ho più immaginato che messo in pratica) che si risolvono con un vigliacco, sai, non me la sento di impegnarmi, questo imprevedibile mondo del cinema non mi dà la stabilità emotiva di cui hai bisogno e bla bla bla e lo invitai a salire su da me. Lui, manco fosse Clarck Gable, rispose: non stasera!
Umiliata nell’orgoglio femminile più profondo, finsi indifferenza finché un giorno, quando ormai avevo perso le speranze, mi accompagnò a casa fin su.
Passarono i mesi e i momenti trascorsi insieme diventarono sempre più intensi e divertenti, ma sul più bello rimanevo sempre un passo indietro, sai, l’imprevedibile mondo del cinema… ma continuavo a fare feste per bambini per sbarcare il lunario.
E arrivò l’estate. Quel giorno lui indossava una maglietta verde pistacchio, bevve un sorso di birra e mi scagliò il suo aut aut. Poi partì per l’America. Io, aggrappata alla roccia della mia singletudine andai nel Salento, nella speranza di farmi risucchiare da un vortice di pizziche e passione, ma come al solito le cose non andarono come mi ero programmata e quando persi il cellulare la mia unica preoccupazione fu ora non potrò rispondere ai suoi messaggi!!! Ma che importa, quando tornerò a Roma dovrò rendergli conto dell’aut aut.
Non sarebbe stato facile, ma non avevo alternative, lui non era mica il mio tipo!
Grazie Dio per averlo illuminato quella sera in cui io, idiota come non mai, gli dissi che non potevo accettare le sue condizioni e che se avesse preferito sarei scomparsa dalla sua vita!
Con uno sforzo estremo per il suo orgoglio, mi diede altro tempo e ancora oggi mi chiedo come riuscì a mettermi di fronte all’amore che muoveva ogni mio gesto e ogni mia parola e che continuavo imperterrita a negare.
E poi in una calda giornata di dicembre tra pianti, finti abbandoni e confessioni melliflue, Dio illuminò anche me.
Che fine abbia fatto il “mio tipo”? Ho smesso di chiedermelo da tempo.
Era il mese di marzo dell’anno 2005. Appena entrai nella sala della libreria dove stava per iniziare il corso di scrittura creativa pensai: “Cazzo! Sono il primo!” Succede, quando si arriva con mezz’ora di anticipo… Poi il corso iniziò, e mezz’ora dopo ecco presentarsi Lei, che ancor prima di salutarci regala a tutti noi uno sguardo radiografico che manco Robocop quando cerca i nemici.
Ma tant’è, lì per lì non mi fece molto effetto, sembrava solo una ragazza un po’ più caciarona del normale, che passava la metà della lezione a scambiarsi occhiate d’intesa e risolini con la sua amichetta con la quale si era iscritta al corso. Eppure… Eppure…
I giorni passavano velocemente, quell’anno. Rapidamente arrivò giugno, e decidemmo di andare insieme a Napoli per un concorso di scrittura. Del viaggio ricordo solo due cose: la sua esuberante allegria e la maglietta rosa a costine che le illuminava il viso. La colonna sonora del viaggio? Le sue chiacchiere. Ininterrotte. Fluviali. Ha iniziato a parlare quando ci siamo visti in testa al binario, alle 7 e 30 circa, e da allora si è interrotta la prima volta solo verso le 11, quando ha addentato una sfogliatella di Scaturchio. Poi, però, ha continuato. In questo momento purtroppo siamo separati da svariate centinaia di chilometri, ma sono abbastanza certo che stia raccontando qualcosa a qualcuno.
Paola è una di quelle persone che se le lasci da sole in una stanza con una sedia, iniziano a parlare con la sedia. Però Paola è speciale, perché dopo un po’ la sedia le risponde, e dopo un paio di giorni la convince anche a fare il trenino in giro cantando “Disco Samba”.
Se devo scegliere un momento in cui ho pensato “è Lei!”, è stato quando alla fine di uno straziante film coreano (campo lungo sulla spiaggia deserta, primo piano sull’occhio della ragazza con la palpebra inferiore tremolante, campo lungo sulla spiaggia con un’automobile, primo piano sull’occhio della ragazza con una lacrima che scende, e così via per una settantina di minuti), proprio in quei momenti in cui pensi che “Vacanze in India” non possa essere poi così male, Lei ha il colpo di genio. Inizia a parlare con il mio feticcio, con Pippo, il pupazzo porta-pigiama-da-neonato che mi regalò Valeria ormai tanti anni fa. Pippo è ormai una propaggine di me stesso, per lo più sta sdraiato sul pianale posteriore della mia macchina, a godersi il panorama della strada che lascio alle mie spalle, ma ogni tanto gli faccio fare un giro davanti (una volta sistemato con la cintura di sicurezza, chiaramente!) .
Beh! Quando Paola ha parlato a Pippo senza sapere tutto questo, ho capito che c’era palesemente un piano di comunicazione tra noi che trascendeva le parole umane per giungere direttamente nell’iperuranio dei pupazzi (vabbè… guarda un po’ che cacchio ho scritto… mi sa che domani lo cancello)
E poi l’aut aut: ci trascinavamo da qualche tempo in un rapporto che non diventava mai quello che era in modo lampante destinato ad essere. Dovevo partire in vacanza per l’America. Poco prima del mio ritorno, lei sarebbe partita per il Salento. Ci saremmo salutati a fine luglio per rivederci solo i primi di settembre. “Paola, quando torno dovrai decidere: o stiamo insieme o smettiamo di vederci”.
Settimane stranissime, telefonate intercontinentali per dirsi poco, solo per sperare di avere la prova che il lumicino acceso non si stesse spegnendo, poi il ritorno in Italia e la scomparsa di Lei con telefonino al seguito. Il mistero. E poi, il suo ritorno.
La sera della resa dei conti:
Cena (pessima) al ristorante argentino. Nervosismo da parte sua palpabile. Io che promanavo una luce abbagliante (d’altro canto, in quel momento ero illuminato da Dio… Mi sa che tolgo pure questa…). Lei che mi dice “No“, io che dico “Che?“, Lei che ripete “No“, io che le dico “OK. Allora ci vediamo domani? Cinema?“, Lei che risponde “Va bene!“. Mantenere ferme le mie posizioni non è mai stato il mio forte.
Meglio così. A dicembre, con qualche mese di ritardo rispetto a quanto programmato dal Fato, finalmente Paola si arrese all’evidenza della meraviglia del nostro rapporto. Il giorno in cui ci dichiarammo esplicitamente sulla via Sacra resta uno dei ricordi più belli della mia vita.